Una fortunata slavina di gialli nordici si è abbattuta sull'editoria italiana, quasi che i narratori da quelle parti fossero più numerosi degli abitanti. Ma l'islandese Arnaldur Indridason non è l'ultimo dei peones venuti giù con la piena. Anzi, è un antesignano. "Un grande gelo" è il suo quinto romanzo pubblicato da Guanda. Il protagonista, come nei libri precedenti, è l'agente Erlendur. Per lui, come per tutti gli altri, basta il primo nome; né cognomi, che in Islanda non esistono, né patronimici, buoni soltanto in casi eccezionali. Da qui parte lo straniante viaggio letterario in un paese in cui anche gli assassini sono confidenzialmente chiamati con il nome di battesimo, come se in fondo si trattasse dei rampolli degenerati della stessa grande famiglia isolana (e isolata).
In un parchetto è stato trovato il cadavere di Elías, dieci anni, figlio di un islandese e di una thailandese. Il ragazzino è stato pugnalato. I suoi genitori sono divorziati, i soldi pochini, la madre parla un islandese vacillante. I rapporti sociali sono fiacchi: occhi a mandorla e pelle olivastra non sono il più comodo dei passepartout per fare amicizia. Infatti, sotto la crosta di un'impeccabile tolleranza nordica, sobbolle – il romanzo è stato scritto nel 2005 – il disagio verso gli stranieri. Gli islandesi sono gelosissimi della loro lingua e della loro storia. Lo stesso Erlendur è allergico alle espressioni inglesi di cui tutti inzeppano le loro frasi; alla figlia che gli risponde "Same old" alla domanda "Che mi dici di te?", il poliziotto ribatte: "Seim old, che cos'hai contro l'islandese?". A fronte di questo limpido attaccamento identitario, qualcun altro comincia a parlare di "musi gialli" e di "Islanda agli islandesi". Così le indagini accarezzano la motivazione razziale. Intanto, il fratellastro di Elías è scomparso. Una complicazione che graffia l'inconscio di Erlendur. Quando era bambino una tormenta lo sorprese in compagnia del fratellino minore. Lui fu salvato, ma il più piccolo non fu mai più ritrovato. E da allora il rovello del "se avessi tenuto più stretta la sua manina" lo perseguita più di ogni altra cosa. Più dei frutti del suo matrimonio sfasciato, una figlia tossica e un figlio che lavoricchia senza né arte né parte.
La costruzione del romanzo è solida e Indridason si innesta brillantemente nella prolifica tradizione narrativa del suo paese, ibridando i più classici temi islandesi – l'isolamento, la durezza meteorologica, il deficit di calore nei rapporti, le storie di fattoria, di mare e di brughiera – con un piglio da letteratura urbana, schietta e dura. I falansteri popolari, gli alcolisti, gli adolescenti apatici, gli immigrati che si contendono le briciole del benessere, i seminterrati scrostati e la ruggine su scivoli e altalene sembrano appartenere più a un set di Ken Loach che a un sobborgo di Reykjavík. E, con anni di anticipo sul crack finanziario, accartocciano il santino dell'Islanda felix. Indridason indaga con mestiere da giallista l'incontro dell'Islanda tradizionale con il mondo contemporaneo. Il titolo del romanzo, in odore di ovvietà, non rende giustizia alla sua complessità di sguardo e alla capacità di costruire personaggi bifronti.
Arnaldur Indridason
Un grande gelo
Guanda
pagg. 300, 17 euro
trad. Silvia Cosimini
